Ho appena appreso che la guest house di “Operazione Colomba”, situata ad At-Tuwani (Cisgiordania), rischia di essere distrutta dalle ruspe israeliane. [qui: Il Fatto Quotidiano]
In pratica, la Corte Suprema israeliana ha respinto il ricorso contro l’ordine di demolizione e ha ordinato l’operazione entro due settimane. Si tratta di un luogo che dal 2021 ha accolto attivisti, giornalisti, delegazioni internazionali: un punto di incontro, solidarietà, visibilità.
Parte dei lavori erano stati avviati nel 2020, in conformità con il piano regolatore locale (appartenente all’amministrazione israeliana). Tuttavia, subito dopo il completamento, è arrivata un’ingiunzione che ha sospeso i lavori — si è usato il pretesto che l’area fosse “sito archeologico” — negando così la proprietà palestinese su quel terreno.
Il processo giudiziario è corso per anni, con rinvii continui, fino a questa decisione drammatica: demolire.
Per contrastare questo destino, è stato creato un murales di 40 metri quadrati sulla facciata dell’edificio, realizzato dal Collettivo FX. E, più di questo, ognuno dei metri quadrati del murales è stato offerto in vendita per acquistarlo simbolicamente: trasformare l’edificio in una proprietà collettiva, internazionale.
Ad oggi, risultano 75 proprietari sparsi per il mondo.
E io? Anch’io ero parte di questa iniziativa
Anch’io ho aderito a quella campagna.
Ho comprato una piccola parte dell’opera — un metro quadro, un simbolo, un gesto — convinto che fosse un contributo, piccolo ma concreto, a un progetto di pace, memoria e giustizia.
Sono oggi comproprietario di una porzione di quella guest house.
Eppure, Israele si appresta a demolirla. Con quale diritto? Dove sta la base legale? Non c’è una giustizia che lo giustifichi. Non un processo imparziale, non un riconoscimento internazionale.
Solo un atto di forza, eseguito contro un bene simbolico, condiviso, collettivo.
Un fenomeno sistemico: abuso, negazione, cancellazione
Questa vicenda non è un episodio isolato: è una manifestazione — tra le tante, troppe — delle violazioni del diritto internazionale (per citarne un’altra recente e popolare, l’abuso in acque internazionali contro la Flottillia) e della sistematica negazione dei diritti civili e umani dei palestinesi.
Un’occupazione che si nutre del potere di cancellare. Un diritto — il diritto alla terra, alla memoria, all’abitare — continuamente calpestato. Un abuso che non colpisce solo i muri, ma speranze, identità, storie.
Israele non ha più alcuna scusa, la sua vergognosa arroganza è palese.
Ogni demolizione testimonia però anche un’altra verità: che la resistenza — civile, simbolica, collettiva — è necessaria.